venerdì 26 aprile 2013

giovedì 25 aprile 2013

lunedì 22 aprile 2013

Usseni Denne




Il piccolo Ussi  amico del Burkina Faso ieri mattina ci ha ritratto al volo,
Aurelio Davide Silvia

giovedì 18 aprile 2013

Hailé Selassié

Intervento  di fronte all'assemblea generale della Lega delle Nazioni
(Luglio 1936)



Nota
La denuncia fatta da Hailé Selassié contro l'aggressione italiana al suo popolo, compiuta attraverso l'inganno morale e l'uso di gas venefici, è una pagina particolarmente obbrobriosa nella lunga storia criminale dello statismo italiano. Di fronte a tutto ciò, la risposta degli altri governi fu così inadeguata, per non dire di peggio, da far prevedere la prossima ingloriosa fine della Lega delle Nazioni.


Io, Hailé Selassié I, Imperatore d'Etiopia, sono qui oggi per reclamare quella giustizia che è dovuta al mio popolo e quell'assistenza ad esso promessa otto mesi or sono da cinquantadue nazioni, quando queste affermarono che un atto di aggressione era stato compiuto in violazione dei trattati internazionali.
Nessuno, all'infuori dell'Imperatore, può rivolgere l'appello del popolo etiopico a queste cinquantadue nazioni.
Non esiste forse alcun precedente di un capo di Stato che prenda la parola di fronte a quest'Assemblea, ma è certo che non v'è alcun precedente di popoli che siano stati vittime di così grandi torti e, al tempo stesso, minacciati di abbandono ai loro aggressori. Mai, sinora, vi era stato l'esempio di un governo che procedesse allo sterminio di un popolo usando mezzi barbari, violando le più solenni promesse fatte a tutti i popoli della terra, che non si debba usare contro esseri umani la terribile arma dei gas venefici. È per difendere un popolo che lotta per la sua secolare indipendenza che il capo dell'Impero etiopico è venuto a Ginevra per adempiere a questo supremo dovere, dopo avere egli stesso combattuto alla testa dei suoi eserciti.
Prego Iddio onnipotente di risparmiare alle nazioni le terribili sofferenze che sono state inflitte negli ultimi tempi al mio popolo e delle quali i capi che sono qui al mio seguito sono stati inorriditi testimoni.
È mio dovere informare i governi riuniti a Ginevra, in quanto responsabili della vita di milioni di uomini, donne e bambini, del mortale pericolo che li minaccia, descrivendo il destino che ha colpito l'Etiopia.
Il governo italiano non ha fatto la guerra soltanto contro i combattenti: esso ha attaccato soprattutto popolazioni molto lontane dal fronte, al fine di sterminarle e di terrorizzarle.
Inoltre, verso la fine del 1935, aerei italiani hanno sganciato bombe lacrimogene sui miei eserciti. Esse ebbero però soltanto risultati limitati. I soldati appresero a sparpagliarsi, aspettando che il vento disperdesse rapidamente i gas velenosi.
L'aviazione italiana ricorse allora ad altri gas. Recipienti di liquido furono gettati su gruppi armati, ma anche questo mezzo fu inefficace: il liquido colpiva soltanto pochi soldati ed i recipienti, abbandonati al suolo, mettevano in guardia contro il pericolo i soldati e la popolazione.
Fu al tempo in cui si svolgevano le operazioni per accerchiare Makallè, che il Comando italiano, temendo una sconfitta, ricorse ai mezzi che io ho ora il dovere di denunciare al mondo.
Sugli aeroplani vennero installati degli irroratori, che potessero spargere su vasti territori una fine e mortale pioggia. Stormi di nove, quindici, diciotto aeroplani si susseguivano in modo che la nebbia che usciva da essi formasse un lenzuolo continuo. Fu così che, dalla fine del gennaio 1936, soldati, donne, bambini, armenti, fiumi, laghi e campi furono irrorati di questa mortale pioggia. Al fine di sterminare sistematicamente tutte le creature viventi, per avere la completa sicurezza di avvelenare le acque ed i pascoli, il Comando italiano fece passare i suoi aerei più e più volte. Questo fu il principale metodo di guerra.
Ma la vera raffinatezza nella barbarie consisté nel portare la devastazione ed il terrore nelle parti più densamente popolate del territorio, nei punti più lontani dalle località di combattimento. Il fine era quello di scatenare il terrore e la morte su una gran parte del territorio abissino.
Questa terribile tattica ebbe successo. Uomini ed animali soccombettero. La pioggia mortale che veniva dagli aerei faceva morire tutti quelli che toccava con grida di dolore. Anche coloro che bevvero le acque avvelenate o mangiarono i cibi infetti morirono con orribili sofferenze. Le vittime dei gas italiani caddero a decine di migliaia. È stato per denunciare al mondo civile le torture inflitte al popolo etiope che mi sono deciso a venire a Ginevra. Nessun altro all'infuori di me e dei miei coraggiosi compagni d'arme poteva portarne di fronte alle Nazioni l'incontestabile prova.
Gli appelli rivolti alla Lega dai miei delegati sono rimasti senza risposta; i miei delegati non sono stati testimoni oculari. Questo è il motivo per cui mi sono deciso a venire a testimoniare contro il crimine perpetrato sul mio popolo e a porre in guardia l'Europa per il destino che l'attende se non reagisce al fatto compiuto.
C'è bisogno che io ricordi all'Assemblea i diversi atti del dramma abissino?
Negli ultimi venti anni, come reggente e come Imperatore, ho diretto i destini del mio popolo. Ho cercato continuamente di portare al mio popolo i vantaggi della civiltà e specialmente di stabilire relazioni di buon vicinato con le potenze confinanti. In particolare, riuscii a concludere con l'Italia il trattato di amicizia del 1928, che proibiva assolutamente il ricorso, per qualsiasi motivo, alla forza delle armi, sostituendola obbligatoriamente con le procedure di arbitrato e di conciliazione, sulle quali le nazioni civili hanno fondato l'ordine internazionale.
Nella sua relazione del 5 ottobre 1935, il comitato dei tredici riconosceva i miei sforzi ed i risultati da me conseguiti. [...]
Avrei certamente ottenuto risultati maggiori per il mio popolo, se continui ostacoli non mi fossero stati frapposti dal governo italiano, che incitava alla rivolta ed armava i ribelli.
In realtà, il governo di Roma, come ritiene opportuno ora proclamare apertamente, si è continuamente preparato per la conquista dell'Etiopia. I trattati di amicizia, che esso ha firmato con me, non erano sinceri; il loro unico scopo era quello di ingannarmi sulle reali intenzioni italiane. Il governo italiano afferma che per quattordici anni esso è venuto preparando le sue attuali conquiste. Pertanto, ammette oggi che quando appoggiò l'ammissione dell'Etiopia nella Lega delle Nazioni nel 1923, quando stipulò il trattato d'amicizia nel 1928, quando firmò il patto di Parigi che bandiva la guerra, stava ingannando il mondo intero. Dal canto suo, il governo abissino vide in questi solenni trattati soltanto nuove garanzie di sicurezza, che lo ponevano in grado di compiere nuovi progressi sulla via pacifica delle riforme, nella quale si era avviato e alla quale si era dedicato con tutta la sua energia e tutto il suo entusiasmo.
Per me, l'incidente di Ual-Ual del dicembre 1934 giunse come un fulmine a ciel sereno. La provocazione italiana era evidente e non esitai a ricorrere alla Lega delle Nazioni. Invocai le norme del trattato del 1928, i principi del Covenant e chiesi con insistenza la procedura di conciliazione e di arbitrato.
Sfortunatamente per l'Etiopia, era il momento in cui un certo governo riteneva che la situazione europea fosse tale da rendere imperativa l'amicizia dell'Italia. Il prezzo pagato fu l'abbandono della indipendenza abissina alla discrezione del governo italiano. Questo accordo segreto, contrario agli obblighi del Covenant, ha avuto grande influenza sul corso degli eventi. L'Etiopia e il mondo stanno ancor oggi soffrendo delle disastrose conseguenze di esso.
Questa prima violazione del Covenant fu seguita da molte altre. Sentendosi incoraggiato nella sua politica anti-etiopica, il governo di Roma intraprese febbrili preparativi di guerra, pensando che la pressione concertata che cominciava ad essere esercitata sul governo abissino avrebbe potuto riuscire a superare la resistenza del mio popolo al dominio italiano. Si doveva guadagnar tempo; così, da ogni parte furono sollevate difficoltà in modo da prolungare la procedura di conciliazione e di arbitrato. Ogni sorta di ostacoli furono frapposti a quella procedura. Alcuni governi tentarono di impedire al governo abissino di trovare degli arbitri tra i propri cittadini. Non appena il tribunale arbitrale fu costituito, vennero esercitate pressioni per ottenere una sentenza favorevole all'Italia. Tutto fu vano. Gli arbitri - due dei quali erano funzionari italiani - furono costretti a riconoscere all'unanimità che, per l'incidente di Ual-Ual e per quelli ad esso conseguenti, non si poteva attribuire alcuna responsabilità internazionale all'Etiopia.
Dopo il lodo arbitrale, il governo abissino sperò sinceramente che si potesse aprire un'èra di amichevoli relazioni con l'Italia. Io stesi lealmente la mano al governo di Roma. [...]
Nell'ottobre del 1935, le cinquantadue nazioni che mi stanno ascoltando oggi mi dettero l'assicurazione che l'aggressore non avrebbe prevalso e che gli strumenti predisposti dal Covenant sarebbero stati potenziati in modo da garantire il rispetto della legge ed il fallimento della violenza.
Chiedo alle 52 nazioni di non dimenticare oggi la politica da esse intrapresa otto mesi or sono e sulla cui fede diressi la resistenza del mio popolo contro l'aggressore che essi avevano denunciato al mondo.
Nonostante l'inferiorità dei miei mezzi, la completa mancanza di aerei, artiglieria, munizioni e servizi sanitari, la mia fiducia nella Lega fu assoluta. Pensavo che fosse impossibile che 52 nazioni, tra le quali le più potenti del mondo, potessero essere tenute in iscacco con successo da un unico aggressore. Confidando nella fede dovuta ai trattati, non avevo intrapreso alcuna preparazione per la guerra e questo è anche il caso di numerose piccole nazioni europee. Quando il pericolo divenne più urgente, conscio delle mie responsabilità nei confronti del mio popolo, ho cercato di acquistare armi durante i primi mesi del 1935. Molti governi posero un embargo per impedirmi di far ciò, mentre il governo italiano, attraverso il Canale di Suez, otteneva tutte le facilitazioni per trasportare senza sosta e senza proteste, truppe, armi e munizioni. Il 3 ottobre 1935 le truppe italiane invasero il mio territorio. Poche ore più tardi decretai la mobilitazione generale. Nel mio desiderio di mantenere la pace avevo - seguendo l'esempio di un grande paese europeo al tempo della guerra mondiale - ritirato le mie truppe per trenta chilometri, in modo da eliminare ogni pretesto di provocazione.
Quindi la guerra fu condotta nelle terribili condizioni che ho esposto di fronte all'Assemblea.
Nell'impari battaglia tra un governo che ha più di 42 milioni di abitanti, che dispone di mezzi finanziari, industriali e tecnici che gli consentono di produrre quantità illimitate di strumenti mortali e un piccolo popolo di 12 milioni di anime, senza armi, senza risorse, che dispone soltanto della giustizia della propria causa e della promessa della Lega delle Nazioni, qual è stata l'effettiva assistenza fornita all'Etiopia dalle 52 nazioni che avevano dichiarato il governo di Roma colpevole di violazione del Covenant e si erano impegnate ad evitare il trionfo dell'aggressore? Veramente ogni Stato membro, com'era suo dovere fare in conseguenza della firma apposta all'articolo 16 del Covenant, ha considerato I'aggressore come se avesse commesso un atto di guerra direttamente rivolto contro di sé? Io avevo riposto tutte le mie speranze nel mantenimento di questi impegni. La mia fiducia era stata confermata dalle ripetute dichiarazioni fatte dal Consiglio per evitare che I' aggressione fosse compensata e che alla fine la forza fosse costretta a cedere di fronte alla legge. [...]
Affermo che la questione oggi all'esame dell'Assemblea è molto più vasta: non si tratta soltanto di emettere un giudizio sul problema dell'aggressione italiana. È un problema di sicurezza collettiva, della stessa esistenza della Società delle Nazioni, della fiducia riposta dagli Stati nei trattati internazionali, della promessa fatta ai piccoli Stati secondo la quale la loro integrità e indipendenza saranno rispettate. Si tratta di una scelta tra il principio dell'eguaglianza tra gli Stati e della imposizione alle piccole potenze dei legami del vassallaggio. In una parola, la questione riguarda la moralità internazionale. Forse che le firme apposte ai trattati internazionali hanno valore soltanto fino a quando le potenze firmatarie hanno un interesse personale, diretto ed immediato?
Nessun sofisma può cambiare la natura di questo problema o modificare i termini della discussione. È in piena sincerità che prospetto queste considerazioni all'Assemblea. In un momento in cui il mio popolo è minacciato di sterminio, in cui l'aiuto della Lega può evitare il colpo finale, mi sia concesso di parlare con estrema franchezza, senza reticenze e direttamente come è richiesto dal principio dell'eguaglianza degli Stati membri della Lega. A parte il Regno di Dio, non c'è sulla terra nazione che sia superiore alle altre. Se un governo forte acquista consapevolezza che esso può distruggere impunemente un popolo debole, quest'ultimo ha il diritto in quel momento di appellarsi alla Lega delle Nazioni per ottenere il giudizio in piena libertà.
Dio e la storia ricorderanno il vostro giudizio.
Ho udito affermare che le insufficienti sanzioni sin qui applicate non hanno raggiunto il loro scopo. In nessun momento, in nessuna circostanza delle sanzioni che erano deliberatamente insufficienti e deliberatamente mal applicate avrebbero potuto fermare un aggressore. Quando l'Etiopia chiedeva, come chiede, che gli fosse concesso un aiuto finanziario, si trattava forse di una misura impossibile da applicarsi? Forse che l'aiuto finanziario della Lega non era stato concesso - ed in tempi di pace - a due paesi, e proprio a due paesi che in questo caso rifiutano di applicare le sanzioni contro l'aggressore?
In presenza delle numerose violazioni da parte del governo italiano di tutti i trattati internazionali che proibivano il ricorso alle armi ed a metodi di guerra barbarici, oggi è stata presa l'iniziativa di ritirare le sanzioni. Che cosa significa, in pratica, questa decisione se non l'abbandono dell'Etiopia nelle mani del suo aggressore? Venendo, proprio nel momento in cui cercavo di fare uno sforzo supremo in difesa del mio popolo, di fronte a questa Assemblea, questa iniziativa non priva forse l'Etiopia di una delle ultime possibilità di ottenere l'aiuto e la garanzia degli Stati membri?  È forse questa la guida che la Lega delle Nazioni e ciascuno degli Stati membri debbono attendersi dalle grandi potenze che affermano il loro diritto ed il loro dovere di guidare l'azione della Lega?

mercoledì 17 aprile 2013

Silvio Corbari partigiano


...mancano pochi giorni all'apertura della mostra e tutto sta nascendo adesso.
Un po' per amore, un po' per sfida, un po' perchè "fare" gli artisti ci riempie di energia e ci fa stare assieme , e guardarsi basta....
Davide sta dipingendo  un po' di eroi della resistenza, questo è Corbari ,"Corbera" prima di essere un combattente...

martedì 16 aprile 2013

mostra " 25 aprile festa della liberazione"


...la mostra "25 aprile festa della liberazione" si farà! il comune di Portico e San Benedetto ci ha dato il patrocinio e per venerdì aspettiamo l'esito favorevole per il sostegno dell'ANPI associazione nazionale partigiani italiani.
Questa primavera che è sbocciata così di prepotenza di sicuro ci ha aiutato ,la linfa scorre assieme al sangue nuovo ,alle foglie, alle bisce...al primo sole...

lunedì 15 aprile 2013

Pier Paolo Pasolini
Le ceneri di Gramsci
I
 
Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l'abbaglia
 
con cieche schiarite... questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo
 
alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio... Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,
 
tra le vecchie muraglie l'autunnale
maggio. In esso c'è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare
 
tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo...
 
Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,
 
quanto meno sventato e impuramente
sano
dei nostri padri - non padre, ma umile
fratello - già con la tua magra mano
 
delineavi l'ideale che illumina
 
(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell'umido
 
giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia
 
patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d'incudine
dalle officine di Testaccio, sopito
 
nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude
 
la sua giornata, mentre intorno spiove.
II
 
Tra i due mondi, la tregua, in cui non
siamo.
Scelte, dedizioni... altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo
 
e nobile, in cui caparbio l'inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno
 
che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte
 
e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni
 
più grandi; ronzano, quasi mai
scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell'urne sparse
 
inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti
 
uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo
 
a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà
 
questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la sera
 
rasserenando spegne in disadorni
sentori d'alga... quest'erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda
 
l'atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta
 
trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda
 
altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido; e risuonano
- familiari da latitudini e
 
orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come
 
smeraldi: "And O ye Fountains..." - le pie
invocazioni...
III
 
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l'urna, sul terreno cereo,
 
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
 
morti: Le ceneri di Gramsci... Tra
speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
 
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
 
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d'adolescente di sesso con morte...)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
 
la tua tensione, sento quale torto
- qui nella quiete delle tombe - e insieme
quale ragione - nell'inquieta sorte
 
nostra - tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme
 
non ancora disperso dell'antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio
 
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d'incudini, in sordina,
soffocato e accorante - dal dimesso
 
rione - ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso... povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in
vetrine
 
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito
 
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade
 
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo
 
l'odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
- con te - il mondo, oggetto non appare
 
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussisto
 
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio - nella sua miseria
 
sprezzante e perso - per un oscuro
scandalo
della coscienza...
  IV
 
Lo scandalo del contraddirmi,
dell'essere
con te e contro te; con te nel core,
in luce, contro te nelle buie viscere;
 
del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un'ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore
 
degli istinti, dell'estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
 
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originaria
 
dell'uomo, che nell'atto s'è perduta,
a darle l'ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più
 
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia...
 
Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto
 
ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante
 
dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la
storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
 
ma a che serve la luce?
  V
 
Non dico l'individuo, il fenomeno
dell'ardore sensuale e sentimentale...
altri vizi esso ha, altro è il nome
 
e la fatalità del suo peccare...
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale
 
oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna
 
delle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce
all'inganno.
Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche
 
le manie con cui dispone il cuore;
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza... e ironico ardore
 
liberale... e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute... Fino alle infime minuzie
 
in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia... Ben protetto
dall'impura virtù e dall'ebbro peccare,
 
difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza!, vive l'io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto
 
il senso di una vita che sia oblio
accorante, violento... Ah come
capisco, muto nel fradicio brusio
 
del vento, qui dov'è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l'anima il cui graffito suona
 
Shelley... Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordico
 
villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell'avventura, estetica
 
e puerile: mentre prostrata l'Italia
come dentro il ventre di un'enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,
 
sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme
 
col membro gonfio tra gli stracci un
sogno
goethiano, il giovincello ciociaro...
Nella Maremma, scuri, di stupende fogne
 
d'erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciolo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.
 
Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,
 
le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,
 
dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa... Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico
 
di fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii
 
del mare... E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza
 
ne è l'Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome
 
del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,
 
in luride spiaggette...
 
Mi chiederai tu, morto disadorno,
d'abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?
VI
 
Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea
 
che al quartiere in penombra si
rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende
 
di una vita smaniosa che del roco
rotolio dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco
 
e assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami
 
caseggiati dove si consuma l'infido
ed espansivo dono dell'esistenza -
quella vita non è che un brivido;
 
corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza
 
- forse più lieta della vita - come
d'un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione
 
che per l'operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l'umile corruzione. Quanto più è vano
 
- in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace -
ogni ideale, meglio è manifesta
 
la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando qua
 
nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine...
 
Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l'intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande
 
lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
 
Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina... Manca poco alla cena;
 
brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d'operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,
 
verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d'immondizia
nell'ombra, rintanate zoccolette
 
che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo
 
a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti
 
di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa
 
vespertina; e scrosciano le
saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,
 
e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellacci
 
e i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.
 
È un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi
 
eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce... Ma io, con il cuore cosciente
 
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
 
1954
Gramsci è sepolto in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. Sul cippo si leggono solo le parole: "Cinera Gramsci" con le date.

lunedì 1 aprile 2013

...ultimo giorno per "in cerca di cibo"

...ultimo giorno per "in cerca di cibo" vorrei dedicare a tutti quelli che l'hanno visitata e ai lettori di questo blog questa poesia un pò "bislacca" e Blue Monk di Thelonious Monk uomo-medicina dalla magica musica.
Grazie a tutti


Senza amore non si vive
di morir non ne ho più voglia
come un'albero la foglia
me ne sto quassù a guardare
gli ippopotami argentati
le giraffe con gli occhiali
gli elefanti ad annusare.
Con le scimmie sto a cantare
chi mi dice che son matto
mando un bacio
quatto quatto
sulla bocca fa svenire.
E' L'AMORE!
fa IMPAZZIRE!